Ottobre 2021 – Blackdeath

 

La caccia selvaggia che corre ferina tra le mura del labirinto del Cosmo, alte, indistruttibili ed impenetrabili di traverso come leggi immani da superare, prosegue pertanto spericolata e guidata da una figura familiare verso l’alto per piegare quei dogmi e beffare scansandoli i suoi crudeli guardiani, giungendo al punto d’incontro mensile numero dieci dell’anno in corso – di cui, per inciso, a quest’ora siamo soltanto agli ultimi due sgoccioli ancora rimasti.
Poco male, in definitiva, perché a proseguire sul percorso imprevedibile di quella libertà anti-cosmica e sovversiva che tanto ci piace da queste parti, e ad averlo fatto col più sonoro dei botti secondo più di metà della redazione in ottobre, sono stati in particolare i russi Blackdeath con il loro “Also Sprach Das Chaos”: fuori per niente-meno-che End All Life Productions di parentela Norma Evangelium Diaboli e pronto a far cambiare idea sui veterani di San Pietroburgo (anche) a chiunque non fosse mai stato particolarmente incline alla proposta del solido e longevo trio arrivato al traguardo del suo full-length numero dieci dal 1998 ad oggi. Ma l’oltremodo sorprendente sperimentazione di quello che -per motivi puramente numerici, come avrete modo di constatare- l’ha dunque spuntata quale disco effettivo del mese scorso, a dire dello staff al momento di fare le consuete votazioni, non è tuttavia l’unica servita sul piatto di oggi – e nemmeno quella partorita dagli artisti più longevi, battuti come sono stati i russi di un disco nel totale e di quasi cinque anni in più di percorso complessivo. Chi non si è perso la settima puntata della ventesima stagione attualmente in corso de La Gente Deve Sapere, giusto lo scorso martedì, non può del resto a questo punto non aver indovinato che seguono (incredibilmente, per chi scrive, con sole due  nomine per colpa di qualche apprezzamento tardivo ma che, stando soltanto a quelle, li avrebbero consegnati al primo posto) i norvegesi Helheim con l’eccezionale “Woduridar” (Dark Essence Records) di cui parleremo in seconda posizione.
Sempre chi ci segue con assiduità saprà che per scoprire invece i due nomi rimanenti del poker di oggi basta scorrere ulteriormente verso il basso e proseguire oltre le discussioni (e perché non l’ascolto?) dei primi due in lizza, partendo proprio dal forse impegnativo eppure estremamente eclettico e seducente concentrato di Black Metal schizoide e ciononostante distillato, purissimo e deviato, iniziatico e definitivo che “Also Sprach Das Chaos” regala in forma di una singolare opera aurale. Il mondo come lo conoscevate è crollato al suono di un’apocalisse cerebrale, gli equinozi della mente sono congelati, la rinascita della vita paralizzata in eterno – ma scoprite insieme a noi com’è potuto accadere tra le pieghe labirintiche che vi attendono…

 

 

[…] Non solo è la progressione che porta i Blackdeath da qualunque loro altro disco ad un qualcosa come “Also Sprach Das Chaos” ad essere rimarchevole, quale traguardo inaspettato di per sé e che in pochi musicisti del genere potrebbero raggiungere, ma l’enorme progressività, ostile ed ammirevole, di un trio che suona come fosse un’orchestra sintetica dall’enorme maestria nella gestione del fattore spaziale, performante un’apocalisse che ha luogo nei recessi della mente umana […] con l’organizzazione ferrea ed ineccepibile degli elementi puramente estranei in un contesto tanto poco lineare quanto può esserlo il marasma evolutivo in due pachidermici brani da oltre un quarto d’ora l’uno […]. A dimostrazione, in fondo, che lasciare le mura del labirinto significa da ultimo testimoniare il sorriso della Sfinge: e se non esistono più barriere fisiche nel dedalo che respira per il Morto protagonista dell’opera, perché il Nulla è il contrario dell’esistenza che conosciamo fin troppo bene ma tutto ciò che esiste è infine generato dalla morte stessa, allora è vero che Blackdeath significa in fondo Black Metal nella sua forma più autentica, originale, individuale, letteralmente ed etimologicamente radicale, tradizionalmente insulare eppure senza confine possibile -a ricordo di un tempo senza passato né futuro in cui le stelle dell’amara Via Lattea erano polvere- nonché puntualmente pronto, abbandonata ogni vana speranza e angoscia, per ciò che mai è esistito. Così parlò il Caos, sic et simpliciter: e mai la sua lingua nera e biforcuta fu più soddisfacente e trionfale.”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

Il delirio anticosmico dei Blackdeath passa attraverso le declamazioni esaltate di un morto capovolto che con la serenità di un folle si compiace di aver sconvolto e scardinato gli ordini dell’universo: in linee progressive che si fanno ruvide e libere come non mai, saettanti in pattern geometrici che vengono continuamente infranti, prende forma una narrazione discontinua ed intrinsecamente frammentaria che, con piglio teatrale e schizoide, percorre la marcia trionfale del Caos imperante. Inerpicati fra gli schemi estrosi di un’elettronica che, dilagante, permea e perturba l’atmosfera in sfrigolanti rintocchi galvanici e nervosi collegamenti sinaptici, i russi fanno il loro ingresso in NoEvDia con un disco bipartito in due macro-brani intervallati da un estrosa fantasia corale, andanti a formare un’uscita dalla natura tanto ambiziosa e sperimentale ma che si rivela al contempo compatta e fluida nei suoi sconcertanti effluvi disordinati.”

Nuovo disco per i russi Blackdeath che possono vantare ancora una volta la partecipazione dietro alle tastiere e nella veste di produttore di Thomas Tannenberger degli Abigor. Da non conoscitore assoluto di questa band, chi scrive, riconosce che l’impronta austriaca è percepibile soprattutto nel modo in cui tastiere e dissonanze si inseriscono nelle composizioni, evitando comunque di sovrastare quello che sembra essere il carattere della band, autrice di un Black Metal che si districa oggi su lunghissime distanze senza alcun problema e dotato di quel tocco anti-cosmico, spesso malinconico e disperato, che si concede momenti musicali quasi visionari tra cori e sonorità tipicamente russe. Il comparto vocale gioca un ruolo essenziale nell’orchestrare ogni singolo frangente all’interno di “Also Sprach Das Chaos”, portando una dimensione di varietà che diventa necessaria nel momento in cui si vanno a proporre progressioni dalla durata di quindici o addirittura venti minuti. In definitiva un disco estremamente ben fatto che invoglia a recuperare e riscoprire sotto un’altra luce anche le opere precedenti della band.”

Il genio degli Helheim nella stesura di un disco di squisita classe e riuscita assoluta quale “Woduridar”. I quattro di Bergen rilasciano il loro migliore da oltre dieci anni a questa parte finendo per consegnarci con grande fame artistica anche uno dei loro più grandi di sempre. E con una discografia simile, con una visione d’acciaio ed un coraggio mai nascosto (che sottoscriviamo senza remore in due considerandolo l’album del mese), è dir più che qualcosa…

[…] “Woduridar” si candida ad essere uno dei lavori più originali, unici, più ricchi di pathos e lentamente ma altrettanto decisamente stupefacenti dell’intera carriera della band […], fatto di un approccio spudoratamente artistico che, invero, agli Helheim non è mai mancato e che tuttavia […] si dimostra più ferocemente a caccia del nuovo che mai mentre gioca con mille generi che perdono di confine metonimico restando tuttavia estremamente fedeli ad uno soltanto: Viking Metal altamente sofisticato, raffinato e adulto, di respiro amplissimo, che non cerca nella modernità la sua maturità bensì in una evoluzione che resta coriaceamente aliena al passare del tempo – e proprio per questo autentica, vera, attuale in eterno come la vita di un antico culto tramandato che prospera con coloro i quali hanno, tra errori e clamorose vittorie, la volontà d’acciaio necessaria a non tradirlo né tradirsi mai.”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

Un po’ a sorpresa mi ritrovo a raccontare dell’undicesimo disco dei norvegesi Helheim, band che avevo malauguratamente accantonato dai tempi di “Raunijar” (2015) perdendo quasi completamente interesse nelle loro pubblicazioni. Quasi per abitudine avvio invece l’ascolto di “Woduridar” per scoprire effettivamente che si tratta di un album che va a colmare un tremendo vuoto musicale che nessun’altra band nel corso di questi ultimi anni era più riuscita a riempire. Mi riferisco ad un modo di fare Viking/Black Metal che difficilmente si trova in altri gruppi colleghi usciti recentemente, come Einherjer (troppo scarsi) o Enslaved (paradossalmente ormai troppo bravi per poter essere legati al mood di cui si sta parlando), riuscendo dunque a riportarmi un po’ indietro nel tempo sotto l’aspetto sensoriale ma restando comunque attuale e perfettamente adatto anche ai giorni nostri; un po’ come uno “Jormundgand” o uno “Yersinia Pestis” (per citarne davvero due a caso) risultano fantastici ancora oggi. Il disco in questione suona incredibilmente spontaneo e sincero, sia quando si tratta di aggredire con serrate cavalcate in stile Black Metal, sia quando crea pura atmosfera facendo uscire allo scoperto tutto il lato più epico e norreno delle composizioni. Al netto di qualche piccola sbavatura (ma più che altro esterna, come la scelta al limite del masochismo di scegliere la title-track come singolo considerando la ripetitività della parte finale: preziosa nel complesso del disco ma controproducente se strappatavi), non son più riuscito a staccarmi dall’universo costruito da “Woduridar”: oramai candidato numero uno ad essere il mio disco preferito (sebbene molto probabilmente non il più bello) di questo 2021.”

Gli Hegemon di Francia che avevano ammaliato la redazione intera nel 2015 con quel grandissimo “The Hierarch” scandalosamente snobbato invece dal resto del mondo alla sua uscita, e che tornano alla carica se possibile ancora più coriacei (sebbene forse con qualche tacca di inventiva in meno quasi fosse per compensare) in “Sidereus Nuncius”, che ha convinto buona parte della gang pronta e scattante a parlarne bene come segue:

Con somma gioia di coloro i quali faticano un po’ di fronte alle proposte dalla criptica natura costruite su di partiture fin troppo elaborate, gli Hegemon ricreano quello stesso mood ancestrale senza per questo rinunciare ad un’apprezzabile schiettezza nella scrittura, specie nella sezione ritmica diretta nei singoli snodi ma allo stesso tempo di grande versatilità, capace di rendere questa cospicua dose di polvere fatta di materia oscura tagliata con pietruzze di carbone infernale un effettivo shape shifting void dalla notevole forza gravitazionale. La posizione a metà strada tra una forma abbastanza semplificata ed un contenuto atmosferico alquanto profondo potrebbe sì affievolire l’interesse verso “Sidereus Nuncius” da parte di chi cerca prodotti dalla direzione più netta, ma offre comunque un altro efficace antidoto alla noia dei lunghi pomeriggi autunnali, magari in alternanza col debutto settembrino della non troppo dissimile entità portoghese Fustilarian.”

Gli Hegemon erigono con perizia e classe otto monumenti monolitici di violenza efferata e nera, vergandoli d’eleganza e rifiniture sinfoniche sommerse: ripartendo dal grandioso “The Hierarch”, i francesi portano alle estreme (nel senso letterale del termine) conseguenze le declinazione di un linguaggio che già li aveva contraddistinti, facendo leva su un compatto blocco di brani dalla lunghezza contenuta e dal sound potente e dinamico. Le trame di “Sidereus Nuncius”, dense di una melma ribollente e spessa razionalizzata da una produzione moderna e muscolare, si dipanano fra i graffianti ed eclettici movimenti delle asce che macinano ritmiche serrate e squadrature dal tono sempre più minaccioso, andando a dimostrare ancora una volta il talento dei francesi, che seppur evolvendo minutamente il proprio stile, questa volta a favore dell’aggressività, continuano ad esprimersi al meglio proprio nei momenti più variegati o melodici del platter come “Shape Shifting Void” o la finale “Your Suffering, My Pillars”.”

A sei anni di distanza ritornano con un ottimo disco i francesi Hegemon, che forti di un nuovo contratto con la connazionale Les Acteurs De L’Ombre Productions pubblicano il loro quinto album “Sidereus Nuncius”: un lavoro che mostra tutte le sfaccettature sonore accumulate fino ad oggi dal quintetto di Montpellier e soprattutto nel precedente “The Hierarch”. Ovverosia, un Black Metal ferale e forsennato dove le chitarre macinano riff al fulmicotone ma in cui non manca mai una certa genuina e gustosissima dose di atmosfera sulfurea che ben si intreccia con la materia e batteria roboante, o con il perfido scream del cantante Nicolas Blachier; vero portatore luciferino insieme alle chitarre del lato oggi ancora più mefistofelico del gruppo.”

Una nomina singola ma necessariamente dovuta infine per il bel disco di debutto dei bavaresi Gràb, forti del poetico ed altamente immaginativo “Zeitlang” uscito per Trollmusic Records ad inizio mese dopo una serie infinita di ritardi per i bastoni fra le ruote gentilmente serviti dalle dinamiche di un mondo moderno con cui il duo, che proviene da un’altra regione temporale d’incanto, non vuole scendere a compromessi.

Quando sette mesi fa uscì la traccia d’anteprima “Nachtkrapp”, ci furono parecchie curiosità di fronte al neonato progetto tedesco Gràb: duo uscito praticamente dal nulla ma nella cui formazione troviamo come cantante e mente lirica Matthias Jell, l’ex-Dark Fortress dal classico “Tales From Eternal Dusk” alla consacrazione “Seance”, insieme a Gråin degli Schrat. Proprio quel singolo d’anteprima mostrava già della caratteristiche molto interessanti, e difatti le aspettative son state ben ripagate dall’album di debutto in cui sembra di addentrarsi in una fiaba oscura. Il merito va anche all’artwork del sempre eccellente Benjamin König (ex-Lunar Aurora), ma nondimeno alla tessitura di un Black Metal atmosferico e mistico che in un qualche modo ricorda proprio il già citato e defunto progetto dei fratelli König, specialmente nel loro ultimo album “Hoagascht”; con la differenza sostanziale che il lavoro qui è tutto delle chitarre (e ben poco è fatto dalle comunque importanti tastiere), i cui riff ora eterei ed ora massicci come monti innevati trasportano l’ascoltatore nelle lontane lande oscure e bucoliche della Bavaria. Da segnalare inoltre l’apporto agli strumenti Folk, come il dulcimer, a cura di Markus Stock (Empyrium) prestatosi insieme alle doti chitarristiche di P.K. (Abigor) per la riuscita complessiva di un ben più che promettente esordio.”

E ben più che promettente, quanto piuttosto una granitica certezza, è anche lo stato di salute di quello che oltre ad essere il mese tuttora in corso è il penultimo di quegli sgoccioli d’annata di cui parlavamo giusto in apertura. Ma vogliamo aspettare ancora qualche settimana per addentrarci in riepiloghi di novembre e restare invece per un attimo ancora sull’ottobre protagonista della rassegna di oggi per consigliarvi quegli ultimi titoli che, per un motivo o per l’altro (sebbene mai per franco demerito), ne sono rimasti esclusi: l’EP degli Enslaved per formato (“Caravans To The Outer Worlds”, che ci auguriamo Nuclear Blast voglia prima o poi anche su CD per noialtri che la musica la ascoltiamo ancora oltre a fotografarla di tanto in tanto), gli Of The Wand & The Moon di Kim Larsen (“Your Love Can’t Hold This Wreath Of Sorrow”, fuori per santa Tesco) per genere; perché affinché del Neo-Folk possa finire in un articolo simile scalzando del Black Metal ci vogliono i Tenhi (se alla Prophecy ci state leggendo come capita ogni tanto: per cortesia!). Oppure, magari, potreste provare gli Häxkapell con un solido debutto di grande varietà e sensazioni accomunate dall’essere tutte squisitamente svedesi (“Eldhymner”, Nordvis), o gli Anti con l’omonimo secondo full-length a distanza di quindici anni dal caposaldo di Depressive tedesco “The Insignificance Of Life”. Poche cose sono del resto certe nella vita: che non si debba perdere nemmeno un secondo in compagnia di un mini-album gonfiato a sfrontato epitaffio integrale di gente che si spaccia impunemente per i Necromantia né con i Ghost Bath. Qualunque cosa questi ultimi facciano al momento. E che se soffrite d’insonnia il buon BlackGoat Gravedesecrator ha registrato “Silver Serpent” per voi. Non resta quindi che sperare tornino presto anche i Goatmoon.

 

Matteo “Theo” Damiani

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